giovedì 22 marzo 2018

Campione di disumanità

Esiste un livello oltre il quale lo schiavista dovrebbe cominciare a farsi schifo da solo? Perché se esiste qualcuno dovrebbe avvertire G., trentenne imprenditore medievale, rampollo di una famiglia “influente”, proprietario di una serie di bar e ritrovi fra Giardini Naxos e Santa Teresa Riva, i cui comportamenti nei confronti dei suoi dipendenti potrebbero andare a riempire un intero manuale di diritti calpestati oltre che di violazioni al codice penale. E la cui “brillante” carriera come campione di disumanità, padrone delle vite degli altri, potrebbe finire grazie alle denunce di una coetanea, combattiva ormai ex dipendente dell’aguzzino, stanca di subire e di vedere i suoi colleghi vessati.
Laureata in Filosofia, diplomata al Conservatorio in pianoforte, un attestato come operatrice di strada, dopo avere vissuto in Francia, un anno fa I. ha sentito l’esigenza di tornare in Italia, al Sud: sapeva che non sarebbe stato facile e per questo, pur con il suo curriculum qualificato, non ha esitato a presentarsi al bar di G. e ad accettare un lavoro come cameriera. Quattro giorni di prova e poi un periodo retribuito durante la stagione estiva, 8 ore di lavoro al giorno, 800 euro al mese, ma niente di scritto: dopo, forse – le aveva detto -, siccome il lavoro stagionale è faticoso, «chi sopravvive alla stagione» avrà un contratto.
La verità è che bisognava sopravvivere ai soprusi, che non risparmiavano nessuno: quelle 8 ore che non sono mai meno di 9 e arrivano a 12 grazie anche al fatto che si chiude alle 4 o alle 5 di notte (malgrado un’ordinanza comunale imponga la chiusura alle 3, ma i controlli – a quanto sembra - li fanno «a tappeto», a tutti tranne che ai suoi due bar di Giardini e a quello di un altro) mentre la paga resta sempre uguale, nemmeno il tempo di cenare, controlli continui, licenziamenti ingiustificati, pressioni psicologiche, rimproveri immotivati e scanditi dal rumore di oggetti sbattuti a ritmo sul banco, lancio di piatti, aggressioni fisiche, intimidazioni; persino la decisione che a gestire le mance, che i dipendenti avevano messo in comune per spartirsele equamente, fosse una persona di fiducia del padrone autorizzata a fare favoritismi; persino quella che I. definisce giustamente «una brutale violazione della mia intimità»: attaccata davanti a tutti i suoi colleghi perché non indossava il reggiseno.
E poi tutte le irregolarità che ora sono finite in un’inchiesta: dagli impianti elettrico e idrico non a norma con danni conseguenti – il frigo rotto, la macchina del caffè che non funziona, l’acqua dell’unico lavandino accumulata nel pozzetto che provoca un corto circuito – alla mancata messa in regola di 15 dipendenti su 16 del locale di Santa Tersa Riva, come accertato dall’Ispettorato del Lavoro.
Ma la cosa che le fa più male è il trattamento riservato a un’altra dipendente: una madre, che lavora per G. insieme ai suoi due figli e a un nipote. Uno dei due figli sta morendo, ricoverato all’ospedale di Taormina e non si sa nemmeno perché, ma alla donna – aiutocuoca senza contratto - viene impedito di andare a trovarlo durante l’orario di visita. «Il padrone era al corrente – racconta I. -, ma non le ha dato il permesso di allontanarsi perché doveva finire il lavoro: doveva preparare la panna. E lei preparava la panna piangendo». Quando è arrivata in ospedale, suo figlio era già morto. E quando tutta la famiglia se n’è andata, a quelli che sono rimasti è toccato farsi carico di altre mansioni: senza orari, senza retribuzioni supplementari, senza tutele: «Noi stavamo male fisicamente – dice ancora I. -, perdevamo chili, ma a lui non interessava. Eravamo militarizzati».
Alla fine, dopo l’ennesima sfuriata davanti ai clienti trasformatasi in una vera e propria aggressione soltanto perché lei correndo da un bar all’altro per sopperire alla mancanza di personale aveva dimenticato di togliere gli occhiali da sole e secondo lui questa era maleducazione, I. si è licenziata spontaneamente, mentre gli altri colleghi sono stati licenziati due giorni dopo «senza preavviso – spiega I. – perché lui aveva deciso di chiudere il bar». Insomma, «era una situazione insostenibile – racconta -, porcherie gratuite». Se ne accorgono solo in due però: lei e un altro, che infatti – dopo che il loro rapporto di lavoro si era concluso e quando l’Ispettorato del Lavoro aveva già avviato la propria indagine – hanno fatto mettere a verbale quello che avevano visto e sentito in quei mesi da incubo. Ma resta l’angoscia per quelli che sono rimasti, ricattabili e incapaci di ribellarsi, e in più la sensazione che G. la farà franca perché la sua famiglia “influente” non rinuncerà ad esercitare il proprio potere.

* Questa storia è arrivata a me grazie al lavoro dello Sportello di autodifesa precaria del Centro sociale Officina Rebelde di Catania.


Nessun commento:

Posta un commento